Esiste un'eredità politica di Bettino Craxi? Se
esistesse, avremmo un indizio per decifrare la tragedia in cui si è
consumato il destino dell'uomo. Ma c'è un ostacolo forse insormontabile:
le eredità rilevanti le lasciano (quando ci riescono, cioè
di rado) i vincitori, i leader che escono di scena nel rispetto generale.
De Gaulle ha lasciato un'eredità in Francia. Adenauer in Germania.
Ma già la Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti si
può dire che non abbiano avuto continuatori.
Craxi non è stato un vincitore, bensì uno
sconfitto. Un lupo solitario del potere negli anni del successo; un'anomalia
negli anni del declino. E non solo perché vittima delle inchieste
giudiziarie. Il craxismo si era già spento dall'interno, come una
torcia esaurita, sul finire degli anni Ottanta, dopo il quadriennio decisivo
alla guida del governo. Decisivo ma privo di sbocchi, in quanto non seguìto
da una vera svolta bensì da un anacronistico e ambiguo immobilismo.
Lì il craxismo cominciò a estinguersi. E il leader, che aveva
messo tanta acqua nel suo vino, pagò infine il prezzo della sua
debolezza, che in politica è sempre peccato mortale. Quindi di eredità
craxiana in senso stretto è difficile parlare. Trasmessa a chi,
poi? All'insieme della sinistra italiana non sembra plausibile, a giudicare
dalle ferite che tuttora sanguinano: al punto che non è chiaro se
Craxi sia morto come latitante ricercato dalla giustizia o come statista
meritevole di funerali di Stato e di una solenne commemorazione a Montecitorio.
Altrettanto improbabile è che il lascito sia patrimonio di quella
che una volta si definiva l'area laica, dai repubblicani ai socialisti.
Negli anni, quel mondo si è ridotto a poco e solo oggi, grazie all'invenzione
del Trifoglio, comincia a dare qualche segno di vita.
Ma, nella quasi estinzione dell'area laica, Craxi, bisogna
dirlo, ha avuto più di una responsabilità. Molto prima di
Tangentopoli, la sua orgogliosa insofferenza verso gli altri laici produsse
danni mai realmente riparati. Basti pensare al rapporto con Giovanni Spadolini.
O alle relazioni altalenanti con i radicali di Marco Pannella.
Oggi il socialista Enrico Boselli, con molta dignità,
assicura che il suo piccolo partito onorerà la memoria del leader
impegnandosi nella riuscita della commissione su Tangentopoli. Ma questo
non basta certo a definire un'eredità e nemmeno a qualificare, nel
lungo termine, una battaglia politica. La verità è forse
quella adombrata l'altra sera da Nerio Nesi nello speciale del Tg5: il
lascito craxiano sta soprattutto nell'esempio di una travolgente, inesausta
passione politica. Una passione e un volontarismo durati per oltre cinquant'anni
e tali da impressionare amici e avversari.
In un'epoca in cui le passioni sono spente e la politica
si è fatta grigia, la tragedia di Craxi è anche questo: la
vicenda di un uomo d'altri tempi, un socialista anticomunista che ha modernizzato
il Paese, negli anni Ottanta, con lo spirito degli anni Venti e Trenta,
la mente rivolta al riformismo milanese e alla difesa dello spazio vitale
del Psi. Oggi Massimo D'Alema riconosce che i socialisti avevano ragione,
nella lunga disputa ideologica con il comunismo, e di Craxi ricorda «il
progetto riformista per il rinnovamento dello Stato e delle istituzioni».
A suo tempo il presidenzialismo craxiano fu aspramente
combattuto da sinistra e l'uomo venne accusato di cesarismo. Al punto che
egli stesso si dimenticò delle riforme. Chissà se è
vero che tra i suoi ultimi scritti c'è proprio un appello alla «grande
riforma istituzionale». Sarebbe un ritorno al primo Craxi, quello
battagliero e creativo degli anni Settanta. E vorrebbe dire che, giunto
all'epilogo, egli ha voluto mandare un messaggio politico. Un messaggio
depurato e pulito, rivolto a chi vuole intenderlo. Non proprio un'eredità,
ma qualcosa che potrebbe assomigliarle.
di STEFANO FOLLI |