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CRAXI : la vera eredità di uno sconfitto. 
di Stefano Folli - , 21 gennaio 2000


Esiste un'eredità politica di Bettino Craxi? Se esistesse, avremmo un indizio per decifrare la tragedia in cui si è consumato il destino dell'uomo. Ma c'è un ostacolo forse insormontabile: le eredità rilevanti le lasciano (quando ci riescono, cioè di rado) i vincitori, i leader che escono di scena nel rispetto generale. De Gaulle ha lasciato un'eredità in Francia. Adenauer in Germania. Ma già la Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti si può dire che non abbiano avuto continuatori. 

Craxi non è stato un vincitore, bensì uno sconfitto. Un lupo solitario del potere negli anni del successo; un'anomalia negli anni del declino. E non solo perché vittima delle inchieste giudiziarie. Il craxismo si era già spento dall'interno, come una torcia esaurita, sul finire degli anni Ottanta, dopo il quadriennio decisivo alla guida del governo. Decisivo ma privo di sbocchi, in quanto non seguìto da una vera svolta bensì da un anacronistico e ambiguo immobilismo. Lì il craxismo cominciò a estinguersi. E il leader, che aveva messo tanta acqua nel suo vino, pagò infine il prezzo della sua debolezza, che in politica è sempre peccato mortale. Quindi di eredità craxiana in senso stretto è difficile parlare. Trasmessa a chi, poi? All'insieme della sinistra italiana non sembra plausibile, a giudicare dalle ferite che tuttora sanguinano: al punto che non è chiaro se Craxi sia morto come latitante ricercato dalla giustizia o come statista meritevole di funerali di Stato e di una solenne commemorazione a Montecitorio. Altrettanto improbabile è che il lascito sia patrimonio di quella che una volta si definiva l'area laica, dai repubblicani ai socialisti. Negli anni, quel mondo si è ridotto a poco e solo oggi, grazie all'invenzione del Trifoglio, comincia a dare qualche segno di vita. 

Ma, nella quasi estinzione dell'area laica, Craxi, bisogna dirlo, ha avuto più di una responsabilità. Molto prima di Tangentopoli, la sua orgogliosa insofferenza verso gli altri laici produsse danni mai realmente riparati. Basti pensare al rapporto con Giovanni Spadolini. O alle relazioni altalenanti con i radicali di Marco Pannella. 

Oggi il socialista Enrico Boselli, con molta dignità, assicura che il suo piccolo partito onorerà la memoria del leader impegnandosi nella riuscita della commissione su Tangentopoli. Ma questo non basta certo a definire un'eredità e nemmeno a qualificare, nel lungo termine, una battaglia politica. La verità è forse quella adombrata l'altra sera da Nerio Nesi nello speciale del Tg5: il lascito craxiano sta soprattutto nell'esempio di una travolgente, inesausta passione politica. Una passione e un volontarismo durati per oltre cinquant'anni e tali da impressionare amici e avversari. 

In un'epoca in cui le passioni sono spente e la politica si è fatta grigia, la tragedia di Craxi è anche questo: la vicenda di un uomo d'altri tempi, un socialista anticomunista che ha modernizzato il Paese, negli anni Ottanta, con lo spirito degli anni Venti e Trenta, la mente rivolta al riformismo milanese e alla difesa dello spazio vitale del Psi. Oggi Massimo D'Alema riconosce che i socialisti avevano ragione, nella lunga disputa ideologica con il comunismo, e di Craxi ricorda «il progetto riformista per il rinnovamento dello Stato e delle istituzioni». 

A suo tempo il presidenzialismo craxiano fu aspramente combattuto da sinistra e l'uomo venne accusato di cesarismo. Al punto che egli stesso si dimenticò delle riforme. Chissà se è vero che tra i suoi ultimi scritti c'è proprio un appello alla «grande riforma istituzionale». Sarebbe un ritorno al primo Craxi, quello battagliero e creativo degli anni Settanta. E vorrebbe dire che, giunto all'epilogo, egli ha voluto mandare un messaggio politico. Un messaggio depurato e pulito, rivolto a chi vuole intenderlo. Non proprio un'eredità, ma qualcosa che potrebbe assomigliarle. 

di STEFANO FOLLI