Poco mercato: più inflazione, meno lavoro, presenza di settori
con poca concorrenza, per
scarsità di privatizzazioni, per privatizzazioni mancate o fatte
a metà e per carenza di
liberalizzazioni.
La seconda è la maggiore disoccupazione che ci trasciniamo da
anni per eccesso di rigidità
dei contratti di lavoro che frena le imprese nelle assunzioni, impedisce
ai lavoratori di
trovare lavoro e costringe, entrambi, a rifugiarsi spesso nel lavoro
nero e nell’illegalità.
Certo, l’Istat come istituzione pubblica di Stato, correttamente, non
usa termini così
secchi e diretti. Basta però leggere con attenzione le analisi
e i dati prodotti per arrivare a
capire il messaggio di fondo qui sintetizzato.
Come rilevato da varie parti, il di più di inflazione italiana
non sta tanto nel rimbalzo del
prezzo del petrolio di quest’ultimo anno. Sta in realtà in quel
’’differenziale in più’’ che noi
da anni ed anni abbiamo rispetto alla media europea, sia quando l’inflazione
è alta, sia
quando l’inflazione è bassa. E il rapporto Istat dimostra che,
al netto dei prezzi dei prodotti
petroliferi, la nostra inflazione è più alta degli altri
paesi europei perché i prezzi in quei
settori protetti crescono di più. Certo, l’aumento del prezzo
del petrolio ha fatto da
detonatore, ma la carica esplosiva sta appunto nei mercati dove...
non c’è mercato.
Dai dati dell’Istat infatti (vedi graff. 1, 2, 3) emerge con chiarezza
che quel di più di
inflazione viene dai settori protetti e poco competitivi che hanno
aumentato molto i
’’loro’’ prezzi. Questi sono assicurazioni, istruzione, acqua, combustibili,
banche,
trasporti aerei ed urbani, alberghi, raccolta rifiuti, medici e medicinali,
ospedali, canone
tv. E viene anche da settori privatizzati, ma finora poco liberalizzati,
come quello
telefonico e da settori tuttora statali come elettricità e ferrovie,
nei quali c’è stata sì una
riduzione dei prezzi ma molto più modesta di quanto fatto in
altri paesi europei.
Ovviamente quel differenziale in più di inflazione ci fa perdere,
lentamente ma
inesorabilmente, competitività, quindi frena il nostro sviluppo
e limita la nostra
occupazione. Ma oltre a questo effetto indotto da una maggiore inflazione
c’è di più.
Dal 1993 al 1999 l’occupazione è aumentata di 208.000 unità.
Il 95% di questi nuovi posti
di lavoro è stato attivato con i cosiddetti contratti atipici,
introdotti di recente e
timidamente in Italia. Soltanto il 5% ha assunto la forma del contratto
a tempo
indeterminato con clausola di inscindibilità matrimoniale (vedi
graf. 4). Ha detto bene
allora il neo-presidente di Confindustria: se questi contratti atipici
li avessimo introdotti
dieci anni fa, quanti milioni di posti di lavoro in più avremmo
oggi? Quanta gente, quanti
giovani, quante donne, quanti capi-famiglia si sarebbero inseriti nel
mercato del lavoro e si
sarebbero trovati concretamente meglio? Insieme alla Germania siamo
il paese europeo
che dal ’93 al ’99 ha prima ridotto fortemente l’occupazione, poi ha
recuperato un po’, ma
alla fine del periodo ci troviamo molto vicini ai livelli di sei anni
prima. Per di più abbiamo
anche il più basso tasso di attività, cioè il
più basso rapporto tra persone che si pongono sul
mercato del lavoro e totale della popolazione.
E’ chiaro quindi che una maggiore diffusione dei cosiddetti contratti
atipici tenderebbe ad
aumentare sia l’occupazione sia il tasso di attività, facilitando
enormemente l’ingresso al
lavoro, l’inserimento professionale, l’acquisizione di esperienze,
la formazione sul campo
di centinaia di migliaia di giovani ma anche di meno giovani che potrebbero
così
riqualificarsi ed accedere a nuove professioni e magari anche a migliori
e più solide
prospettive di lavoro.
E’ bene allora che la quota di contratti atipici cresca fortemente,
anche perché in Italia
ancora oggi è pari a circa la metà di quanto risulta
in altri paesi europei.
Ma qui va chiarito un punto fondamentale. Il contratto atipico deve
essere lo strumento
per agevolare l’ingresso nel mercato del lavoro per poi accedere a
un contratto a tempo
indeterminato. Anche perché dopo un anno o due anni il lavoratore
ha ben imparato il
mestiere, si è inserito in quell’ambiente professionale, ha
acquisito conoscenze e capacità,
lui conosce l’impresa e l’impresa conosce lui e quindi sarebbe naturale
e fisiologico il
passaggio al contratto a tempo indeterminato. Questo vuol dire che
nella fascia dei
contratti atipici deve esserci una significativa rotazione. Questi
contratti devono cioè
rappresentare un volano per far entrare sempre più persone nel
mercato del lavoro, per poi
farle inserire verso il contratto a tempo indeterminato ed essere sostituite,
nella fase di
cuscinetto tra non lavoro e lavoro definito e certo, da altri giovani,
altre persone che
necessitano di riqualificarsi e riaggiornarsi con nuove esperienze
di lavoro.
E qui sta il blocco vero che emerge dai dati dell’Istat. Infatti, di
questi contratti atipici,
soltanto il 20% nella media nazionale si trasforma nel contratto tipico
entro i tre anni, il
32% al Nord e soltanto il 5% al Sud. Il restante 38% rimane nel precariato
e il 38% torna
ad essere disoccupato. Ma perché questo avviene? Evidentemente
perché le rigidità del
contratto a tempo indeterminato bloccano le imprese nel trasformare
in tipici i contratti
atipici. E’ vero infatti che negli atipici c’è un risparmio
di costi. Ma dopo due o tre anni di
esperienza di lavoro e di conoscenza reciproca ciò che blocca
le imprese non è certo il
salto nel costo del lavoro per trasformarlo in contratto tipico (a
fronte del quale c’è per
altro una acquisita alta produttività e un costo per l’impresa
nel ricominciare a cercare
qualcun altro e riaddestrarlo) ma è il ’’salto nel buio’’ che
determina il matrimonio
indissolubile e rigido dove i tribunali amministrativi sono molto meno
flessibili e molto
più fondamentalisti della stessa Sacra Rota. E un’importante
componente del sindacato sta
bloccando l’accordo per introdurre la più semplice, più
rapida e più giusta procedura del
ricorso all’arbitrato.
Ecco allora che "tanto Stato, poco mercato e troppe regole rigide" impongono
a tutti noi di
dover sopportare più inflazione (cioè prezzi più
alti, quantità e qualità di prodotti più
basse) e più disoccupazione (cioè uno spreco assurdo
di risorse umane, un inconcepibile
blocco di speranze per tanti giovani, una spinta deleteria ed irresponsabile
verso il lavoro
nero e forse anche verso l’illegalità).
Ma più inflazione e meno occupazione significa meno consumi e
meno investimenti, cioè
meno sviluppo, meno benessere, meno giustizia, meno risorse per la
solidarietà, meno
conquiste civili, meno difese sociali.
Occorre uscire da questo perverso imbuto nel quale abbiamo infilato
l’economia italiana,
ma nel quale sono ben più dentro e ben più stretti i
più poveri. I ricchi, infatti, si chiamano
fuori da quell’imbuto per capacità proprie, per capacità
di famiglia o per maggiori
conoscenze e raccomandazioni.
Ma per uscire sul serio dall’imbuto occorre che la politica, come in
tutte le democrazie
occidentali, si confronti e si scontri sui problemi della gente, sulle
decisioni concrete da
prendere, sui risultati effettivi che si debbono ottenere.
Poco mercato: più inflazione, meno lavoro . E’ troppo americano
avere più sviluppo, più
occupazione, più benessere, più giustizia sociale, più
equità tra giovani ed anziani? E’ più
’’europeo’’ avere una economia asfittica che non cresce, alta disoccupazione,
meno
giustizia sociale, centinaia di migliaia di giovani che non trovano
lavoro e milioni di
pensionati e pensionandi incerti su se, quando e quanto potranno avere
di pensione nella
loro vecchiaia?
Solo Totò avrebbe una risposta seria e netta a chi pone questioni
del genere: «Ma mi faccia
il piacere!».