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Caccia al voto degli 
elettori italoamericani
Una proposta di legge per sollevare il velo 
sugli internamenti in epoca fascista


(GRTV) L'ultimo a voler rivelare questa storia sarebbe il suo stesso protagonista, Ezio Pinza. Il primo a volerlo, invece, e il solo in grado di farlo, è uno che protagonista della storia, forse, sta per diventarlo: Rick Lazio, il candidato erede repubblicano di Rudolph Giuliani alla carica di sindaco di New York. Nell'imminenza delle elezioni e per ingraziarsi la comunità italoamericana, l'aspirante Mayor ha promesso di fare luce sul trattamento riservato ai nostri connazionali emigrati 50 anni fa. E nella sua battaglia contro la patina del tempo e gli insabbiamenti burocratici ha preso a esempio proprio la vicenda di Pinza, il cantante lirico italiano sbarcato negli Usa sul finire dei ruggenti anni Venti.

Non che la sua esperienza rappresenti un'eccezione. Al contrario. E' ciò che capita, comprensibilmente, a ogni cittadino straniero quando il suo Paese d'origine entra in guerra con quello che lo ospita. Per chiunque la viva, però, è difficile accettare che la "normalità" sia fatta di diritti soppressi, intimidazioni arbitrarie, persecuzioni ingiustificate.

Solo qualche giorno prima del fatto, lo stesso Ezio Pinza avrebbe riso dell'affermazione del presidente Roosevelt: "Gli italiani non sono gente pericolosa; sono solo una nazione di cantanti d'opera". Ma nel momento in cui Roosevelt la pronunciava, a lui, il basso italiano della Metropolitan Opera di New York, arrestato nel marzo del 1942, quella frase suonava come una nota falsa, una stonatura in un dramma corale: quello di migliaia di emigranti italiani che, durante la Seconda guerra mondiale, furono fermati, interrogati, confinati nel Montana e fu loro impedita la libera circolazione negli Stati Uniti. Tutti costoro, al pari di giapponesi e tedeschi, da un giorno all'altro erano diventati "nemici". Nemici da tenere sotto controllo. Proprio come Pinza.

Quella mattina del marzo del 1942, gli agenti dell'FBI gli erano entrati in casa senza bussare e senza suonare il campanello: "In nome del Presidente degli Stati Uniti, la dichiaro in arresto", gli avevano detto. E l'avevano condotto a Ellis Island, dove 15 anni prima era sbarcato e dove sarebbe rimasto, contro la sua volontà, undici settimane. Perfino Thomas Mann aveva protestato contro l'internamento del basso. La fama era stata la sua fortuna, la sua salvezza: l'aveva reso un prigioniero scomodo e gli era ritornata, accresciuta e rinnovata da quell'esperienza. Lui, il cantante che si esibiva pubblicamente ogni sera per la New York che contava, un amico di Mussolini! E poi, quasi rapidamente quanto ne era stato allontanato, era di nuovo sotto i riflettori. L'umiliazione non contava. Non sul palcoscenico, almeno, dove, al contrario, lo raggiungevano applausi più intensi del solito.

Ondate di comprensione lo travolgevano finché era in scena, lo lambivano ai ricevimenti ufficiali, lo solleticavano davanti ai giornalisti, infine lo abbandonavano sulla soglia di casa. Oltre la quale, di quello che era successo, non si doveva parlare. Mai.

Democratici e Repubblicani Uniti. Così, nel 1957, insieme a Pinza, anche la sua vicenda pareva estinta. Era una vecchia storia di guerra, di quelle che gli anziani si raccontano quando si sentono sopravvissuti alla loro stessa vita. Sono occorsi, appunto, gli sforzi congiunti di due deputati di New York, il democratico Eliot Engel e il repubblicano Rick Lazio, e quarant'anni di tempo, per farla rivivere. Quarant'anni di silenzio e reticenze, innanzitutto da parte dell'FBI. I federali non si erano presi la briga di spiegare a Pinza le accuse contro di lui, mentre gli toglievano cintura, cravatta e stringhe delle scarpe. Non lo fecero nemmeno in seguito. In vece loro, il Washington News aveva giustificato l'arresto del basso, strillando che "Pinza, un italiano e quindi un nemico straniero, ha scelto il ruolo sbagliato. Si è fatto vanto di essere amico di Mussolini". A Hoover bastava. Di conseguenza, bastava anche a tutti gli altri. D'altra parte, il primo a non lamentarsi era stato proprio lui, la vittima. Dopo il ritorno a casa, non aveva mai menzionato l'accaduto davanti ai parenti e aveva lasciato che la figlia lo scoprisse solo negli anni Cinquanta. Perché Ezio Pinza, il cantante pronto ad affrontare, ogni sera, gli sguardi e il giudizio di migliaia di sconosciuti, si vergognava. "Per gli italoamericani lamentarsi è un segno di debolezza", ha spiegato al Village Voice, Joseph Scelsa, del John D. Calandra Italian-American Institute. "E' nella natura della nostra psiche vergognarci anche quando siamo innocenti".

E se a suscitare il senso di colpa di Pinza bastava il sospetto di ingratitudine verso l'America, a provocarne l'arresto serviva poco di più; le testimonianze dell'ammirazione del cantante per Mussolini, la lettura dei periodici italiani, la corrispondenza con i parenti rimasti in Italia. Dapprincipio, il Federal Bureau of Investigation aveva raccolto scarse informazioni su di lui. Ma poi, nel settembre 1940, era arrivata una lettera che lo denunciava come "membro attivo del partito nazista, nonché smaccato denigratore di tutto quanto è americano". L'informatore, il cui nome è cancellato dai dossier attualmente disponibili in Rete (all'indirizzo www.Villagevoice.com/issue/0015/goodyear-fbi.shtr), aveva ricevuto ampie rassicurazioni che i fatti sarebbero stati presi in "adeguata considerazione". Solo pochi mesi dopo, però, il caso era stato chiuso: "Non c'è prova di attività sovversiva dell'indagato".

La firma di un "affidabile". La prova fu trovata due anni più tardi. Consisteva nell'apprezzamento della campagna italiana in Etiopia, nel sostegno di Pinza alla Croce Rossa Italiana, nella sua passata partecipazione alla raccolta aurea nazionale. Invano il celebre antifascista Carlo Tresca aveva sostenuto che "Ezio Pinza non si era mai mostrato, direttamente o indirettamente, un agente del fascismo o di Mussolini". Per ottenere le autorizzazioni ad andare in tournée, all'inizio del 1942, il basso dovette firmare 88 volte e raccogliere 22 permessi. "Il dipartimento di Giustizia è diventato un collezionista di autografi", commentò sarcasticamente un giornale di New York. Ne raccolsero parecchi, durante le undici settimane passate a Ellis Island. Infine, avvenne il rilascio, sulla parola e in cambio di relazioni settimanali a un "affidabile cittadino americano".

Curiosamente, sono proprio due esemplari cittadini statunitensi, due deputati, ad aver riesumato la vicenda. Engel e Lazio vogliono che il governo riveli pubblicamente come fu trattata la comunità italoamericana durante la Seconda guerra mondiale. Il loro progetto di legge non prevede un indennizzo, né scuse ufficiali. Mira a divulgare la lista dei soggetti arrestati, internati e fermati, tra l'altro, per violazione del coprifuoco. E chiede il finanziamento statale per quest'atto puramente formale, tanto più apprezzabile quanto meno dovuto. "Significa lavorare molto per una cosa da poco", ha obiettato però lo storico Philip Cannistraro, docente di studi italoamericani al Queens College. "Agli italiani non è capitato lo stesso che ai giapponesi e ai tedeschi. Non dico sia stato giusto, ma bisogna contestualizzare i fatti". Occorre ricordare, pertanto, che fu solo la necessità di assicurarsi il voto degli immigranti residenti a New York a indurre Roosevelt a definire "amici" gli italoamericani, in occasione del Columbus Day del 1942. Al contrario, tedeschi e giapponesi rimasero nemici dal febbraio dello stesso anno alla fine della guerra, con tutti gli inconvenienti del caso.

Elisa Venco
Diario del 15 giugno 2000