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L’AMBASCIATORE AMERICANO 
RACCONTA I SUOI TRE ANNI A ROMA 
Foglietta: «Io, l’Italia e i comunisti»
«Non sono gli uomini, è il sistema che non funziona»

Aldo Cazzullo - LA STAMPA  30.01.2001



   ROMA - In questi tre anni l’ambasciatore Thomas Foglietta è «ritornato italiano», si è innamorato del Paese dei suoi nonni, «tutti e quattro di Monteroduni, provincia di Isernia», ha ritrovato le sue radici, tira certe pacche con rincorsa, riesce persino a parlare bene dei politici italiani, comunisti compresi. Il sontuoso ufficio sui giardini di via Veneto, da dove ha tenuto i contatti con tre presidenti del Consiglio, gestito i casi Baraldini e Cermis, mediato tra Washington e Palazzo Chigi sulla guerra del Kosovo, è arredato con semplici souvenir, foto di Monteroduni, cartoline delle città d’arte italiane, un tagliacarte d’argento con la scritta «ricordo di Campobasso» che il nonno si era portato in America nel 1895 e un altro quasi identico («ma di fattura un po’ più rozza», precisa sottovoce) che gli hanno regalato appunto a Campobasso l’anno scorso. 

   Dice che dell’Italia gli piace tutto, tranne tre cose: «La gente che fuma troppo, le cave che deturpano le montagne, e la terribile instabilità politica». L’ambasciatore parla di «revolving door government», il governo della porta girevole. «Ho conosciuto tre premier di grande talento, ma sono durati poco, e presto ce ne sarà un quarto». Anche se sarà Berlusconi, il problema dell’instabilità è destinato, nella visione di Foglietta, a restare irrisolto: «Non voglio dare valutazioni politiche. Dico solo questo: non è questione di persone; è il sistema che non funziona». 

   Ambasciatore Foglietta, lei è stato il primo rappresentante di Washington a convivere con un presidente del Consiglio ex comunista. Problemi? 

   «Tutt’altro. Vede, è normale che un ambasciatore parli con molta gente. La nostra politica, fino a poco tempo fa, era di parlare con molti, ma non con tutti. Con i comunisti non si doveva parlare. Ecco, a me questo non pareva giusto. Quando sono arrivato a Roma mi sono detto: "Voglio parlare con i comunisti. Voglio conoscere questo mister Bertinotti, questo mister Cossutta"». 

   Veramente mi riferivo a D’Alema. Comunque cominciamo pure da Bertinotti e Cossutta. Dove vi siete visti? 

   «Sono venuti da me, nella residenza di villa Taverna». 

   Insieme? 

   «No, separatamente. Più di una volta: per un lunch, per un coffee. Alla prima occhiata erano un po’ spaesati. Poi ho fatto arrivare delle sfogliatelle napoletane, una buona tazza di caffè, e ho messo un po’ di musica: "Vieni, c’è una strada nel bosco" (l’ambasciatore dà prova di essere discretamente intonato, nda). Una canzone di Gino Bechi: una voce straordinaria; e un comunista. Bene, è scattato qualcosa. Pochi minuti dopo cantavamo insieme. Con Bertinotti siamo passati al tu, mi ha detto: "Chiamami Fausto". Con Cossutta abbiamo parlato della guerra partigiana. Da allora abbiamo sempre avuto ottime relazioni». 

   Anche con D’Alema avete cantato? 

   «No, con D’Alema no. Con Prodi ero diventato amico. E’ una persona molto simpatica». 

   Mentre D’Alema... 

   «Con D’Alema non sono diventato amico, ma abbiamo avuto un rapporto di rispetto reciproco. E ci sentivamo due, anche tre volte al giorno, durante la crisi del Kosovo, quando fu chiuso l’aeroporto di Brindisi, quando i bombardieri che colpivano Milosevic partivano dall’Italia». 

   Con quali risultati? 

   «Nessun presidente del Consiglio avrebbe potuto gestire la situazione meglio di quanto abbia fatto lui». 

   Anche con Cossiga i rapporti erano intensi? 

   «Perché mi fa questa domanda?» 

   Perché l’Udr di Cossiga votò l’allargamento a Est della Nato. E qualcuno, ad esempio il biografo di D’Alema Giovanni Fasanella, ha scritto che Cossiga ha lavorato per la nascita di un governo a guida postcomunista, convinto che avrebbe assecondato l’impegno militare Usa meglio di un governo guidato da un cattolico. 

   «Ho stima dell’ex presidente Cossiga, ho con lui relazioni formali, ma non rapporti particolarmente intensi». 

   Il presidente Ciampi ha avuto parole molto dure contro la pena di morte e i Paesi che la applicano. Non l’ha turbata? 

   «Noi abbiamo molto rispetto per il presidente Ciampi e per le sue opinioni. Ma sappiamo che democrazia è disaccordo. Gli Stati Uniti sono un Paese democratico, l’Italia è un Paese democratico. La battaglia contro la pena di morte non è più patrimonio di una élite, anche da noi ci sono milioni di persone contrarie alla pena capitale, e migliaia che si battono per abolirla. Fa parte della dialettica democratica, non ci vedo nulla di male». 

   La mobilitazione italiana contro la pena di morte, però, sembra uno dei segnali di un crescente sentimento antiamericano, insieme con l’allarme per l’uranio impoverito, le polemiche sul caso Baraldini, e in generale la reazione a quella che viene percepita come l’egemonia Usa. Lei avverte tale sentimento? 

   «Lei parla di egemonia Usa in Italia. Io avverto piuttosto un’egemonia italiana negli Usa. Ci sono 34 McDonald's a Roma, è vero; ma ci sono 400 ristoranti italiani a New York. Lo sa quali sono i cantanti più popolari in America? Pavarotti e l’altro, come si chiama, the blind man , Bocelli. Avverto molto più l’influenza italiana quando sono in America, che non viceversa». 

   Il che non esclude l’antiamericanismo. 

   «Io non lo sento. In questi tre anni le relazioni tra Italia e Stati Uniti si sono rafforzate. Quando è caduta la funivia del Cermis, io mi sono inginocchiato sul luogo del disastro. Abbiamo risolto il caso Baraldini. E’ stato un successo». 

   Lei ha toccato due punti essenziali. Cominciamo dal primo. Clinton ha graziato alcuni compagni della Baraldini. C’è speranza anche per lei? Il «successo» può essere completato dalla liberazione? 

   «Sono rimasto colpito dalla mobilitazione che ho visto in Italia per la Baraldini. Bologna, Chieti, Potenza, ovunque andassi c’era gente che lavorava per lei. Allora, visto che la situazione era bloccata da tempo, sono andato direttamente da Clinton e dalla Albright, non da altri, e ho detto loro: "Vedete, qui non sono duecento persone, sono due milioni di persone che si battono per una donna. Questo vuole il governo italiano, questo vogliono gli italiani". Clinton ha capito. E ora pensa di aver fatto per la Baraldini tutto quel che doveva fare. Questa è anche la mia sensazione». 

   Se non capisco male, per Washington il caso Baraldini è chiuso. Mi parli del Cermis. La foto che lei tiene sulla sua scrivania, e che la ritrae inginocchiato a Cavalese, è destinata a diventare il simbolo dei suoi tre anni in Italia. Come è stato accolto quel gesto in America? Lo rifarebbe? 

   «Certo che sì. Osservi anche quest’altra foto. Sono io con le autorità locali sul luogo del disastro. Gli altri sono in giacca e cravatta, io in maglione e giacca a vento. Avevo sciato su quelle montagne fino a poco prima, la notizia mi ha raggiunto a Verona, sulla via del ritorno. Sono tornato indietro. Ho fatto quel che sentivo di fare. Quando il Senato americano ha bloccato i risarcimenti, sono tornato a rivolgermi direttamente a Clinton, e li ho ottenuti». 

   All’Italia mancherà Clinton? 

   «All’Italia non so; a me, sì. Sono suo amico fin da quando ero il congressman di Filadelfia. Sono stati anni straordinari. Bill ha convinto mezzo mondo a sedersi e parlare, anziché spararsi, e spesso l’apporto italiano è stato determinante, pensi a quel che ha fatto Lamberto Dini in Corea. Purtroppo resta la piaga del Medio Oriente». 

   Che cosa cambierà con l’amministrazione Bush per l’Europa e l’Italia? 

   «Secondo me, praticamente nulla. Bush e Powell sono internazionalisti. Credono nell’uguaglianza degli uomini e nel rispetto delle nazionalità». 
Se i rapporti tra Roma e Washington sono ottimi, perché all’insediamento di Bush non è andato nessun esponente del centrosinistra? 

   «Non lo so. Forse perché Bush è di centrodestra...». 

   Che cosa farà quando lascerà questa ambasciata? 

   «Non tornerò in America a fare politica. Resterò qui in Italia. Mi piacerebbe lavorare per lo sviluppo del Sud. Sono amico di Bassolino, mi porta sempre a prendere il caffè da Gambrinus, e anche di Leoluca Orlando, insieme parliamo di molte cose. Ci sono 30 milioni di americani di origine italiana, quasi tutti meridionali, e non c’è un volo transoceanico che parta dal Sud. Sul tema volevo organizzare una riunione con i presidenti delle Regioni del Sud, ma c’erano difficoltà. Allora ho telefonato a Veltroni e a Berlusconi. Sono venuti tutti e sono stati molto disponibili. 
Sono o non sono diventato italiano?». 

   Direi proprio di sì. Ha cantato anche con Berlusconi? 

   «Ci siamo visti più volte, da lui, qui a Roma, e da me. Anche Fini è un buon amico, ho rispetto per lui. Silvio è un uomo simpaticissimo, che sorride sempre». 

   E stando ai sondaggi elettorali è al momento in testa. Nel riferire a Clinton della sua missione, lei sottolinea che la coalizione favorita è la stessa che nel ‘94 durò pochi mesi. Con quale disposizione Washington guarda a un eventuale cambio di governo in Italia? 

   «Non riuscirà a farmi esprimere un giudizio sui partiti. Dico solo che non è questione di uomini; è il sistema che non funziona. Se Clinton fosse caduto ogni volta che dieci parlamentari cambiavano posizione, avremmo avuto otto anni di confusione anziché di crescita. Prodi è caduto non per dieci voti, ma per un voto solo. E’ terribile. Questo sistema, questa instabilità è terribile: per qualsiasi governo. Guardate invece quanta autorevolezza hanno guadagnato i sindaci e i governatori, come li chiamate adesso. Io so che il mio amico Bassolino farà per cinque anni il presidente della Campania: è un interlocutore, per la politica, per il business». 

   Le ennesime rivelazioni su Ustica e la vicenda della chiusura dell’ambasciata non indicano quanto meno un problema di comunicazione tra le autorità Usa e quelle italiane? 

   «No. Ustica è un fatto di vent’anni fa, che non mi riguarda. L’ambasciata l’ho chiusa io, dopo aver telefonato ai vertici dei carabinieri, in seguito a un allarme terrorismo, ora parzialmente rientrato. E posso assicurare che nessuno mi ha ordinato o suggerito "non dirlo agli italiani", oppure "non dirglielo in questo modo". Era mia responsabilità farlo, perché ho il dovere di proteggere le 650 persone che lavorano qui». 

   Non è stata una prova di sfiducia nella capacità del governo e delle forze dell’ordine italiane di proteggervi? 

   «Non è affatto così. I terroristi hanno colpito le Torri gemelle di New York, hanno colpito uffici pubblici a Oklahoma City: non c’è protezione che tenga. In quei giorni, comunque, polizia, carabinieri e guardia di finanza hanno fatto un lavoro fantastico. Anche grazie a loro ho potuto riaprire subito l’ambasciata». 

   In tempo per la grana dell’uranio impoverito. 

   «Che le inchieste delle organizzazioni sanitarie escludono possa essere collegato con le malattie dei reduci del Kosovo». 

   Sta dicendo che, quando c’è di mezzo l’America, in Italia prevalgono le reazioni emotive? 

   «Lei sa che la pasta aglio e olio non è buona, se non c’è il peperoncino..». Qui l’ambasciatore scoppia a ridere, e con l’ultima pacca con rincorsa segnala che l’intervista è finita.