ROMA
- In questi tre anni l’ambasciatore Thomas Foglietta è «ritornato
italiano», si è innamorato del Paese dei suoi nonni, «tutti
e quattro di Monteroduni, provincia di Isernia», ha ritrovato le
sue radici, tira certe pacche con rincorsa, riesce persino a parlare bene
dei politici italiani, comunisti compresi. Il sontuoso ufficio sui giardini
di via Veneto, da dove ha tenuto i contatti con tre presidenti del Consiglio,
gestito i casi Baraldini e Cermis, mediato tra Washington e Palazzo Chigi
sulla guerra del Kosovo, è arredato con semplici souvenir, foto
di Monteroduni, cartoline delle città d’arte italiane, un tagliacarte
d’argento con la scritta «ricordo di Campobasso» che il nonno
si era portato in America nel 1895 e un altro quasi identico («ma
di fattura un po’ più rozza», precisa sottovoce) che gli hanno
regalato appunto a Campobasso l’anno scorso.
Dice che dell’Italia
gli piace tutto, tranne tre cose: «La gente che fuma troppo, le cave
che deturpano le montagne, e la terribile instabilità politica».
L’ambasciatore parla di «revolving door government», il governo
della porta girevole. «Ho conosciuto tre premier di grande talento,
ma sono durati poco, e presto ce ne sarà un quarto». Anche
se sarà Berlusconi, il problema dell’instabilità è
destinato, nella visione di Foglietta, a restare irrisolto: «Non
voglio dare valutazioni politiche. Dico solo questo: non è questione
di persone; è il sistema che non funziona».
Ambasciatore
Foglietta, lei è stato il primo rappresentante di Washington a convivere
con un presidente del Consiglio ex comunista. Problemi?
«Tutt’altro.
Vede, è normale che un ambasciatore parli con molta gente. La nostra
politica, fino a poco tempo fa, era di parlare con molti, ma non con tutti.
Con i comunisti non si doveva parlare. Ecco, a me questo non pareva giusto.
Quando sono arrivato a Roma mi sono detto: "Voglio parlare con i comunisti.
Voglio conoscere questo mister Bertinotti, questo mister Cossutta"».
Veramente mi
riferivo a D’Alema. Comunque cominciamo pure da Bertinotti e Cossutta.
Dove vi siete visti?
«Sono
venuti da me, nella residenza di villa Taverna».
Insieme?
«No, separatamente.
Più di una volta: per un lunch, per un coffee. Alla prima occhiata
erano un po’ spaesati. Poi ho fatto arrivare delle sfogliatelle napoletane,
una buona tazza di caffè, e ho messo un po’ di musica: "Vieni, c’è
una strada nel bosco" (l’ambasciatore dà prova di essere discretamente
intonato, nda). Una canzone di Gino Bechi: una voce straordinaria; e un
comunista. Bene, è scattato qualcosa. Pochi minuti dopo cantavamo
insieme. Con Bertinotti siamo passati al tu, mi ha detto: "Chiamami Fausto".
Con Cossutta abbiamo parlato della guerra partigiana. Da allora abbiamo
sempre avuto ottime relazioni».
Anche con D’Alema
avete cantato?
«No, con
D’Alema no. Con Prodi ero diventato amico. E’ una persona molto simpatica».
Mentre D’Alema...
«Con D’Alema
non sono diventato amico, ma abbiamo avuto un rapporto di rispetto reciproco.
E ci sentivamo due, anche tre volte al giorno, durante la crisi del Kosovo,
quando fu chiuso l’aeroporto di Brindisi, quando i bombardieri che colpivano
Milosevic partivano dall’Italia».
Con quali risultati?
«Nessun
presidente del Consiglio avrebbe potuto gestire la situazione meglio di
quanto abbia fatto lui».
Anche con Cossiga
i rapporti erano intensi?
«Perché
mi fa questa domanda?»
Perché
l’Udr di Cossiga votò l’allargamento a Est della Nato. E qualcuno,
ad esempio il biografo di D’Alema Giovanni Fasanella, ha scritto che Cossiga
ha lavorato per la nascita di un governo a guida postcomunista, convinto
che avrebbe assecondato l’impegno militare Usa meglio di un governo guidato
da un cattolico.
«Ho stima
dell’ex presidente Cossiga, ho con lui relazioni formali, ma non rapporti
particolarmente intensi».
Il presidente
Ciampi ha avuto parole molto dure contro la pena di morte e i Paesi che
la applicano. Non l’ha turbata?
«Noi abbiamo
molto rispetto per il presidente Ciampi e per le sue opinioni. Ma sappiamo
che democrazia è disaccordo. Gli Stati Uniti sono un Paese democratico,
l’Italia è un Paese democratico. La battaglia contro la pena di
morte non è più patrimonio di una élite, anche da
noi ci sono milioni di persone contrarie alla pena capitale, e migliaia
che si battono per abolirla. Fa parte della dialettica democratica, non
ci vedo nulla di male».
La mobilitazione
italiana contro la pena di morte, però, sembra uno dei segnali di
un crescente sentimento antiamericano, insieme con l’allarme per l’uranio
impoverito, le polemiche sul caso Baraldini, e in generale la reazione
a quella che viene percepita come l’egemonia Usa. Lei avverte tale sentimento?
«Lei parla
di egemonia Usa in Italia. Io avverto piuttosto un’egemonia italiana negli
Usa. Ci sono 34 McDonald's a Roma, è vero; ma ci sono 400 ristoranti
italiani a New York. Lo sa quali sono i cantanti più popolari in
America? Pavarotti e l’altro, come si chiama, the blind man , Bocelli.
Avverto molto più l’influenza italiana quando sono in America, che
non viceversa».
Il che non esclude
l’antiamericanismo.
«Io non
lo sento. In questi tre anni le relazioni tra Italia e Stati Uniti si sono
rafforzate. Quando è caduta la funivia del Cermis, io mi sono inginocchiato
sul luogo del disastro. Abbiamo risolto il caso Baraldini. E’ stato un
successo».
Lei ha toccato
due punti essenziali. Cominciamo dal primo. Clinton ha graziato alcuni
compagni della Baraldini. C’è speranza anche per lei? Il «successo»
può essere completato dalla liberazione?
«Sono
rimasto colpito dalla mobilitazione che ho visto in Italia per la Baraldini.
Bologna, Chieti, Potenza, ovunque andassi c’era gente che lavorava per
lei. Allora, visto che la situazione era bloccata da tempo, sono andato
direttamente da Clinton e dalla Albright, non da altri, e ho detto loro:
"Vedete, qui non sono duecento persone, sono due milioni di persone che
si battono per una donna. Questo vuole il governo italiano, questo vogliono
gli italiani". Clinton ha capito. E ora pensa di aver fatto per la Baraldini
tutto quel che doveva fare. Questa è anche la mia sensazione».
Se non capisco
male, per Washington il caso Baraldini è chiuso. Mi parli del Cermis.
La foto che lei tiene sulla sua scrivania, e che la ritrae inginocchiato
a Cavalese, è destinata a diventare il simbolo dei suoi tre anni
in Italia. Come è stato accolto quel gesto in America? Lo rifarebbe?
«Certo
che sì. Osservi anche quest’altra foto. Sono io con le autorità
locali sul luogo del disastro. Gli altri sono in giacca e cravatta, io
in maglione e giacca a vento. Avevo sciato su quelle montagne fino a poco
prima, la notizia mi ha raggiunto a Verona, sulla via del ritorno. Sono
tornato indietro. Ho fatto quel che sentivo di fare. Quando il Senato americano
ha bloccato i risarcimenti, sono tornato a rivolgermi direttamente a Clinton,
e li ho ottenuti».
All’Italia mancherà
Clinton?
«All’Italia
non so; a me, sì. Sono suo amico fin da quando ero il congressman
di Filadelfia. Sono stati anni straordinari. Bill ha convinto mezzo mondo
a sedersi e parlare, anziché spararsi, e spesso l’apporto italiano
è stato determinante, pensi a quel che ha fatto Lamberto Dini in
Corea. Purtroppo resta la piaga del Medio Oriente».
Che cosa cambierà
con l’amministrazione Bush per l’Europa e l’Italia?
«Secondo
me, praticamente nulla. Bush e Powell sono internazionalisti. Credono nell’uguaglianza
degli uomini e nel rispetto delle nazionalità».
Se i rapporti tra Roma e
Washington sono ottimi, perché all’insediamento di Bush non è
andato nessun esponente del centrosinistra?
«Non lo
so. Forse perché Bush è di centrodestra...».
Che cosa farà
quando lascerà questa ambasciata?
«Non tornerò
in America a fare politica. Resterò qui in Italia. Mi piacerebbe
lavorare per lo sviluppo del Sud. Sono amico di Bassolino, mi porta sempre
a prendere il caffè da Gambrinus, e anche di Leoluca Orlando, insieme
parliamo di molte cose. Ci sono 30 milioni di americani di origine italiana,
quasi tutti meridionali, e non c’è un volo transoceanico che parta
dal Sud. Sul tema volevo organizzare una riunione con i presidenti delle
Regioni del Sud, ma c’erano difficoltà. Allora ho telefonato a Veltroni
e a Berlusconi. Sono venuti tutti e sono stati molto disponibili.
Sono o non sono diventato
italiano?».
Direi proprio
di sì. Ha cantato anche con Berlusconi?
«Ci siamo
visti più volte, da lui, qui a Roma, e da me. Anche Fini è
un buon amico, ho rispetto per lui. Silvio è un uomo simpaticissimo,
che sorride sempre».
E stando ai
sondaggi elettorali è al momento in testa. Nel riferire a Clinton
della sua missione, lei sottolinea che la coalizione favorita è
la stessa che nel ‘94 durò pochi mesi. Con quale disposizione Washington
guarda a un eventuale cambio di governo in Italia?
«Non riuscirà
a farmi esprimere un giudizio sui partiti. Dico solo che non è questione
di uomini; è il sistema che non funziona. Se Clinton fosse caduto
ogni volta che dieci parlamentari cambiavano posizione, avremmo avuto otto
anni di confusione anziché di crescita. Prodi è caduto non
per dieci voti, ma per un voto solo. E’ terribile. Questo sistema, questa
instabilità è terribile: per qualsiasi governo. Guardate
invece quanta autorevolezza hanno guadagnato i sindaci e i governatori,
come li chiamate adesso. Io so che il mio amico Bassolino farà per
cinque anni il presidente della Campania: è un interlocutore, per
la politica, per il business».
Le ennesime
rivelazioni su Ustica e la vicenda della chiusura dell’ambasciata non indicano
quanto meno un problema di comunicazione tra le autorità Usa e quelle
italiane?
«No. Ustica
è un fatto di vent’anni fa, che non mi riguarda. L’ambasciata l’ho
chiusa io, dopo aver telefonato ai vertici dei carabinieri, in seguito
a un allarme terrorismo, ora parzialmente rientrato. E posso assicurare
che nessuno mi ha ordinato o suggerito "non dirlo agli italiani", oppure
"non dirglielo in questo modo". Era mia responsabilità farlo, perché
ho il dovere di proteggere le 650 persone che lavorano qui».
Non è
stata una prova di sfiducia nella capacità del governo e delle forze
dell’ordine italiane di proteggervi?
«Non è
affatto così. I terroristi hanno colpito le Torri gemelle di New
York, hanno colpito uffici pubblici a Oklahoma City: non c’è protezione
che tenga. In quei giorni, comunque, polizia, carabinieri e guardia di
finanza hanno fatto un lavoro fantastico. Anche grazie a loro ho potuto
riaprire subito l’ambasciata».
In tempo per
la grana dell’uranio impoverito.
«Che le
inchieste delle organizzazioni sanitarie escludono possa essere collegato
con le malattie dei reduci del Kosovo».
Sta dicendo
che, quando c’è di mezzo l’America, in Italia prevalgono le reazioni
emotive?
«Lei sa
che la pasta aglio e olio non è buona, se non c’è il peperoncino..».
Qui l’ambasciatore scoppia a ridere, e con l’ultima pacca con rincorsa
segnala che l’intervista è finita.
|