In un panorama politico come quello italiano,
tanto propenso alle sciabolate declamatorie quanto poco attento alla virtù
della coerenza, le urla nel deserto di Mirko Tremaglia meriterebbero miglior
sorte. Con la foga del militante che lo ha sempre contraddistinto (lo chiamavano
«il fascistone», fino a tempi non lontani), Tremaglia si batte
da decenni per la concessione del diritto di voto agli italiani residenti
all’estero. Nei mesi scorsi il traguardo sembrava finalmente a portata
di mano, forte dell’appoggio quasi unanime dei partiti presenti in Parlamento.
Ma ora che prende forma l’ennesimo giro di valzer, e che la promessa fatta
avanza a passi felpati verso la prossima legislatura, il deputato di An
dimostra che anche il furore può essere bipartisan.
La sinistra è colpevole di ostruzionismo
aggravato, su questo Tremaglia non ha dubbi. Ma poi aggiunge, senza pudori
di schieramento, di aver sollecitato al suo segretario Fini «una
dichiarazione pubblica di lealtà» (giunta ieri sera), e di
avergli anche chiesto un intervento su Berlusconi perché Forza Italia
«è complice» nella tattica del rinvio. Quanto a Francesco
D’Onofrio, capogruppo del Ccd al Senato, si è segnalato sollevando
«dubbi ingiustificati».
In piena campagna elettorale, questa rabbia
trasversale di Tremaglia è una ventata d’aria fresca. Ma è
anche, purtroppo, una rappresentazione sempre più fedele della realtà.
Maggioranza e opposizione si erano trovate
unite, lo scorso ottobre, nell’approvare la riforma costituzionale che
sanciva dopo mezzo secolo il diritto di voto degli italiani all’estero.
Rimanevano da stabilire, con legge ordinaria, le modalità di attuazione,
ma nessuno osava pensare (pardon , nessuno osava dire) che l’impegno solennemente
assunto con i nostri connazionali potesse non valere per le già
previste elezioni politiche di primavera. Tanto più che erano noti
a tutti i sentimenti del Capo dello Stato, sentimenti che Ciampi ha ricordato
nel suo messaggio di Capodanno.
Cosa può dunque essere accaduto,
nelle ultime settimane? E’ accaduto semplicemente che nessuno dei nostri
partiti, di sinistra o di destra, di governo o di opposizione, si è
dimostrato disposto a rinunciare a spartire con i vecchi metodi diciotto
poltrone parlamentari: dodici alla Camera e sei al Senato, tante quante
verrebbero riservate al voto degli italiani all’estero.
I problemi posti dalla legge di attuazione,
è vero, sono molteplici e complessi. C’è la questione del
«chi» vota, perché il numero degli aventi diritto oscilla
dai due ai tre milioni e oltre fra le pieghe dell’Aire (l’anagrafe degli
italiani residenti fuori dai confini nazionali, mai depurata dei morti
e dei trasferiti) e quelle degli altrettanto imprecisi elenchi consolari.
C’è altresì il dubbio sulla natura della circoscrizione da
attribuire ai nostri compatrioti, che la sinistra preferirebbe divisa in
continenti (ritenendo che il voto europeo possa avvantaggiarla) e che la
destra vorrebbe unica e mondiale (facendo conto sui suffragi d’oltre Atlantico)
.
Si potrebbe continuare, e gettare nella
pentola una infinità di tecnicismi. Ma non è questo che conta,
non è questo che ha risospinto il buon Tremaglia in trincea. Perché
a mancare davvero è la volontà politica dei ragionieri d’ogni
colore, perché a turbare in anticipo il viaggio che Carlo Azeglio
Ciampi compirà il mese prossimo in Argentina è la disinvolta
violazione di un patto che vede lo Stato come vero contraente, perché
a danneggiare l’immagine dell’Italia presso i suoi stessi cittadini è
un pilatesco e anche ridicolo gioco a nascondino.
Il presidente della Camera Violante ricorda
che esiste ancora il tempo per «ritrovarsi su un intento comune».
Il ministro Maccanico precisa che lui per primo ne sarebbe felice. Fini
reclama l’intervento di Ciampi. Sarà, ma il nostro timore è
che abbia visto giusto Tremaglia, l’incontenibile. In tutte le direzioni.
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