Roma. La Monsanto fa cent’anni, ma ne celebra uno
solo, dopo avere cambiato nome per la fusione con un gruppo più
piccolo. Ve la immaginate la Fiat che inizia a occuparsi di computer, si
mette con una società minore, e lascia perdere del tutto le macchine,
prendendo pure un nome nuovo? Eppure, si tratta oggi della firma forse
più odiata del mondo. Lo stesso cambio di nome, da Monsanto a Pharmacia
Corporation, ha avuto il senso, se non proprio di farsi dimenticare, per
lo meno di segnare un giro di boa con la propria immagine. Ma non c’è
stato niente da fare. Sull’esempio di quell’Operazione Brucia Monsanto,
che nel 1998 ha visto migliaia di contadini dare fuoco alle coltivazioni
sperimentali della multinazionale nell’India del Sud, una campagna simile
viene minacciata anche dal Movimento dei Senza Terra del Brasile in occasione
del Forum Sociale anti-Davos di Porto Alegre, accompagnando l’annuncio
a qualche primo saggio concreto. E anche in Italia il magazzino della Monsanto
di Lodi si è trovato in una singolare tenaglia: prima posto sotto
sequestro dalla polizia, per il timore che fra le 112 tonnellate di semi
ivi custoditi ve ne fossero di transgenici; poi incendiato da "ecoterroristi".
Ma l’abitudine ad affrontare contestazioni è
per la Monsanto antica. Sede centrale a Saint Louis, Missouri, la Monsanto
viene fondata nel 1901 dal chimico John Francis Queeny, primo importatore
negli Usa della tecnologia di fabbricazione della saccarina, edulcorante
artificiale per diabetici da poco inventato in Germania. La Monsanto è
stata anche l’inventrice dell’aspartame, altro edulcorante artificiale.
Passata negli anni 20 alla chimica generale, l’azienda diviene una delle
principali fornitrici di acido sulfurico degli Usa e poi, negli anni 40
la quarta industria chimica del mondo. Nel 1947 scoppia il primo scandalo
per i 500 morti provocati dall’esplosione di un cargo francese carico di
nitrato di ammonio, durante un’operazione di sbarco presso il molo dell’impianto
texano della Monsanto di Galveston. Ma l’azienda finisce nell’occhio del
ciclone soprattutto negli anni 60: per il diserbante "agente arancio" fornito
alle truppe Usa in Vietnam, e per le accuse di tossicità ai PCBs,
refrigeranti incombustibili di nuova generazione inventati dalla società
di Saint Louis negli anni 30. Mentre gli anni 70 e 80 vedono ripetute accuse
di diffusione di diossina, con interventi anche a livello federale. Insomma,
quando nel 1984 viene inaugurato il pionieristico Centro delle Scienze
di Chesterfield Village, l’impressione è che la Monsanto voglia
inventarsi una strada nuova. Anche se all’inizio quei 250 laboratori e
quelle 26 serre sembrano un investimento in perdita. Ma già nel
1988 arriva il primo risultato: un seme di soia resistente al Roundup,
l’erbicida che è uno dei prodotti di punta della Monsanto.
Osservano i maligni che più delle critiche
ai pericoli della sostanza per l’ambiente a muovere i ricercatori sarebbe
stata l’imminente scadenza per i limiti temporali dell’esclusiva di brevetto
del glifosato, il principio attivo del Roundup. Ma il successo è
comunque immenso, e sull’onda dell’entusiasmo Chesterfield Village si lancia
in un’altra impresa: una coltura resistente ai parassiti grazie all’inserimento
di una tossina insetticida nel codice genetico stesso della pianta. Dalla
soia si passa al mais. Poi Robert Shapiro, il presidente maniaco di biotecnologie,
si rivolge anche al cotone. Per poter con più comodo vaccinare le
piante coltivate, la Monsanto si mette anzi a comprare le grandi produttrici
di sementi del paese: la Holden’ Foundation Seed, la Asgrow, la Agracetus,
la Delkab. E nel 1997 inizia la vendita diretta. "Vogliamo educare il mercato",
spiegano i dirigenti della Monsanto. Al che concorrenti e associazioni
di consumatori iniziano a parlare di "arroganza". I timori della società
sono due. Il primo è che i contadini, dopo aver comprato una sola
volta le sementi geneticamente modificate, utilizzino una parte del prodotto
stesso del primo raccolto per le semine successive.
Il secondo che, invece del Roundup, acquistino qualcuna
delle imitazioni più economiche da cui il mercato è stato
inondato. Per evitare le due cose, la Monsanto fa firmare ai clienti un
contratto d’esclusiva in cui minaccia di ricorrere in tribunale per ottenere
risarcimenti esorbitanti. Ma fa un passo falso, inserendo in queste condizioni
una clausola in cui si riserva il diritto di libera ispezione di campi
e magazzini dei compratori per tre anni. Di fronte alla generale levata
di scudi, Shapiro è costretto a fare marcia indietro. A questo punto,
però, l’attenzione dell’opinione pubblica inizia a essere distratta
da un’offensiva ecologista che agita il fantasma degli ogm come pericolosi
per la salute. E’ la sindrome del "cibo Frankenstein". Quando nel 1998
i primi battelli carichi di soia ogm sono bloccati nei porti europei, i
piccoli coltivatori si stringono intorno alle altre multinazionali, contro
il comune nemico. Da una parte, la American Soybean Association stanzia
un milione e mezzo di dollari per una "campagna di informazione" rivolta
ai consumatori europei; dall’altra, la Monsanto si concentra su una campagna
da 25 milioni di franchi di pubblicità sulla Francia, dove si tiene
la prima conferenza sull’avvenire degli ogm. Non sembra difficile far fare
ai contestatori la figura degli oscurantisti isterici, di fronte a una
scelta ormai obbligata: metà della soia prodotta negli Usa e un
quarto di quella mondiale sono, nel 1999, ogm.
Ma la Monsanto comincia ad ansimare. Dopo aver venduto
tutte le attività chimiche per concentrarsi nella biotecnologia,
nel 1998 tenta di aumentare la sua quota di mercato fondendosi con l’American
Home Products, ma il tentativo fallisce, così come nel 1999 fallisce
un analogo approccio con la DuPont de Nemours. Intanto, la "sindrome Frankestein"
è sbarcata anche negli Usa: la Novartis annuncia di aver soppresso
gli ingredienti ogm dalla sua linea di prodotti per l’infanzia Gerber;
la McDonald dichiara guerra alle patatine transgeniche… Shapiro spera intanto
nel gene "Terminator": sementi sterili, che obbligherebbero i contadini
a ricomprarle a ogni raccolto. Terminator viene presentato come "frutta
e verdura senza semi fastidiosi", ma la solidarietà filo-ogm degli
agricoltori, forse imprudentemente data per acquisita, non regge. Il 4
ottobre 1999 la Monsanto annuncia l’abbandono di Terminator, mentre il
suo titolo in Borsa si dimezza in 13 mesi. La Monsanto diventa sensibile
ai consigli della Fondazione Rockfeller, che sulle biotecnologie punta
per risolvere la fame del Terzo mondo, ma che appunto per questo vuole
che non vi pesi sopra alcuna ombra di tipo monopolistico o speculativo.
E anche dal Senato Usa e dal vicepresidente Gore arriva una rinnovata fiducia
a una Monsanto che si ponga come punta di diamante della biotecnologia,
senza però ostinarsi a divenire un prepotente monopolista. Qui si
inserisce, nel 2000, la fusione con il gruppo svizzero Usa Pharmacia and
Upjohn. Nel luglio 2000 un importante risultato è l’apertura agli
ogm della Commissione europea. "Non possiamo bloccare il progresso della
tecnologia", affermano il commissario all’Ambiente, la svedese Margot Wallstroem,
e il commissario alla Sanità David Byrne, irlandese. Ma nel momento
in cui la nuova linea viene trasmessa ai singoli governi, la realtà
è quella di un’Europa con governi a maggioranza di sinistra con
ministeri dell’ambiente gestiti dai verdi. E alla resistenza degli ambientalisti
si è ormai saldata quella dei contadini, dimentichi di antiche e
al loro tempo apparentemente irriducibili contrapposizioni su caccia e
erbicidi.