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Reportage poco lusinghiero sulla Monsanto
Storia, ambizioni e disavventure 
di un pioniere del transgenico
Foglio - Aprile 2001

 

Roma. La Monsanto fa cent’anni, ma ne celebra uno solo, dopo avere cambiato nome per la fusione con un gruppo più piccolo. Ve la immaginate la Fiat che inizia a occuparsi di computer, si mette con una società minore, e lascia perdere del tutto le macchine, prendendo pure un nome nuovo? Eppure, si tratta oggi della firma forse più odiata del mondo. Lo stesso cambio di nome, da Monsanto a Pharmacia Corporation, ha avuto il senso, se non proprio di farsi dimenticare, per lo meno di segnare un giro di boa con la propria immagine. Ma non c’è stato niente da fare. Sull’esempio di quell’Operazione Brucia Monsanto, che nel 1998 ha visto migliaia di contadini dare fuoco alle coltivazioni sperimentali della multinazionale nell’India del Sud, una campagna simile viene minacciata anche dal Movimento dei Senza Terra del Brasile in occasione del Forum Sociale anti-Davos di Porto Alegre, accompagnando l’annuncio a qualche primo saggio concreto. E anche in Italia il magazzino della Monsanto di Lodi si è trovato in una singolare tenaglia: prima posto sotto sequestro dalla polizia, per il timore che fra le 112 tonnellate di semi ivi custoditi ve ne fossero di transgenici; poi incendiato da "ecoterroristi".

Ma l’abitudine ad affrontare contestazioni è per la Monsanto antica. Sede centrale a Saint Louis, Missouri, la Monsanto viene fondata nel 1901 dal chimico John Francis Queeny, primo importatore negli Usa della tecnologia di fabbricazione della saccarina, edulcorante artificiale per diabetici da poco inventato in Germania. La Monsanto è stata anche l’inventrice dell’aspartame, altro edulcorante artificiale. Passata negli anni 20 alla chimica generale, l’azienda diviene una delle principali fornitrici di acido sulfurico degli Usa e poi, negli anni 40 la quarta industria chimica del mondo. Nel 1947 scoppia il primo scandalo per i 500 morti provocati dall’esplosione di un cargo francese carico di nitrato di ammonio, durante un’operazione di sbarco presso il molo dell’impianto texano della Monsanto di Galveston. Ma l’azienda finisce nell’occhio del ciclone soprattutto negli anni 60: per il diserbante "agente arancio" fornito alle truppe Usa in Vietnam, e per le accuse di tossicità ai PCBs, refrigeranti incombustibili di nuova generazione inventati dalla società di Saint Louis negli anni 30. Mentre gli anni 70 e 80 vedono ripetute accuse di diffusione di diossina, con interventi anche a livello federale. Insomma, quando nel 1984 viene inaugurato il pionieristico Centro delle Scienze di Chesterfield Village, l’impressione è che la Monsanto voglia inventarsi una strada nuova. Anche se all’inizio quei 250 laboratori e quelle 26 serre sembrano un investimento in perdita. Ma già nel 1988 arriva il primo risultato: un seme di soia resistente al Roundup, l’erbicida che è uno dei prodotti di punta della Monsanto.

Osservano i maligni che più delle critiche ai pericoli della sostanza per l’ambiente a muovere i ricercatori sarebbe stata l’imminente scadenza per i limiti temporali dell’esclusiva di brevetto del glifosato, il principio attivo del Roundup. Ma il successo è comunque immenso, e sull’onda dell’entusiasmo Chesterfield Village si lancia in un’altra impresa: una coltura resistente ai parassiti grazie all’inserimento di una tossina insetticida nel codice genetico stesso della pianta. Dalla soia si passa al mais. Poi Robert Shapiro, il presidente maniaco di biotecnologie, si rivolge anche al cotone. Per poter con più comodo vaccinare le piante coltivate, la Monsanto si mette anzi a comprare le grandi produttrici di sementi del paese: la Holden’ Foundation Seed, la Asgrow, la Agracetus, la Delkab. E nel 1997 inizia la vendita diretta. "Vogliamo educare il mercato", spiegano i dirigenti della Monsanto. Al che concorrenti e associazioni di consumatori iniziano a parlare di "arroganza". I timori della società sono due. Il primo è che i contadini, dopo aver comprato una sola volta le sementi geneticamente modificate, utilizzino una parte del prodotto stesso del primo raccolto per le semine successive.

Il secondo che, invece del Roundup, acquistino qualcuna delle imitazioni più economiche da cui il mercato è stato inondato. Per evitare le due cose, la Monsanto fa firmare ai clienti un contratto d’esclusiva in cui minaccia di ricorrere in tribunale per ottenere risarcimenti esorbitanti. Ma fa un passo falso, inserendo in queste condizioni una clausola in cui si riserva il diritto di libera ispezione di campi e magazzini dei compratori per tre anni. Di fronte alla generale levata di scudi, Shapiro è costretto a fare marcia indietro. A questo punto, però, l’attenzione dell’opinione pubblica inizia a essere distratta da un’offensiva ecologista che agita il fantasma degli ogm come pericolosi per la salute. E’ la sindrome del "cibo Frankenstein". Quando nel 1998 i primi battelli carichi di soia ogm sono bloccati nei porti europei, i piccoli coltivatori si stringono intorno alle altre multinazionali, contro il comune nemico. Da una parte, la American Soybean Association stanzia un milione e mezzo di dollari per una "campagna di informazione" rivolta ai consumatori europei; dall’altra, la Monsanto si concentra su una campagna da 25 milioni di franchi di pubblicità sulla Francia, dove si tiene la prima conferenza sull’avvenire degli ogm. Non sembra difficile far fare ai contestatori la figura degli oscurantisti isterici, di fronte a una scelta ormai obbligata: metà della soia prodotta negli Usa e un quarto di quella mondiale sono, nel 1999, ogm.

Ma la Monsanto comincia ad ansimare. Dopo aver venduto tutte le attività chimiche per concentrarsi nella biotecnologia, nel 1998 tenta di aumentare la sua quota di mercato fondendosi con l’American Home Products, ma il tentativo fallisce, così come nel 1999 fallisce un analogo approccio con la DuPont de Nemours. Intanto, la "sindrome Frankestein" è sbarcata anche negli Usa: la Novartis annuncia di aver soppresso gli ingredienti ogm dalla sua linea di prodotti per l’infanzia Gerber; la McDonald dichiara guerra alle patatine transgeniche… Shapiro spera intanto nel gene "Terminator": sementi sterili, che obbligherebbero i contadini a ricomprarle a ogni raccolto. Terminator viene presentato come "frutta e verdura senza semi fastidiosi", ma la solidarietà filo-ogm degli agricoltori, forse imprudentemente data per acquisita, non regge. Il 4 ottobre 1999 la Monsanto annuncia l’abbandono di Terminator, mentre il suo titolo in Borsa si dimezza in 13 mesi. La Monsanto diventa sensibile ai consigli della Fondazione Rockfeller, che sulle biotecnologie punta per risolvere la fame del Terzo mondo, ma che appunto per questo vuole che non vi pesi sopra alcuna ombra di tipo monopolistico o speculativo. E anche dal Senato Usa e dal vicepresidente Gore arriva una rinnovata fiducia a una Monsanto che si ponga come punta di diamante della biotecnologia, senza però ostinarsi a divenire un prepotente monopolista. Qui si inserisce, nel 2000, la fusione con il gruppo svizzero Usa Pharmacia and Upjohn. Nel luglio 2000 un importante risultato è l’apertura agli ogm della Commissione europea. "Non possiamo bloccare il progresso della tecnologia", affermano il commissario all’Ambiente, la svedese Margot Wallstroem, e il commissario alla Sanità David Byrne, irlandese. Ma nel momento in cui la nuova linea viene trasmessa ai singoli governi, la realtà è quella di un’Europa con governi a maggioranza di sinistra con ministeri dell’ambiente gestiti dai verdi. E alla resistenza degli ambientalisti si è ormai saldata quella dei contadini, dimentichi di antiche e al loro tempo apparentemente irriducibili contrapposizioni su caccia e erbicidi.