Una lettera – reportage a firma di
Oriana Fallaci, pubblicata lo scorso 29 settembre sul Corriere della Sera
e idealmente indirizzata al Direttore Ferruccio De Bortoli, tutti i sentimenti
di un’italiana che ha scelto di vivere il suo profondo patriottismo in
America: “È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata
dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena
di illusioni. Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi
meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c’è anche
se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi
me la ruba, guai a chi me la invade”.
(News ITALIA PRESS) Un peàna
per Rudolph Giuliani, una critica durissima a chi paragona gli immigrati
che arrivano oggi in Italia con gli italiani che partirono un secolo fa
per l’America, e infine uno lungo, lunghissimo canto d’amore per l’Italia
venato dalla tristezza per un patriottismo italiano e per una certa Italia
che non ci sono più. C’è tutto questo nella lettera-reportage
di Oriana Fallaci da New York pubblicata sul Corriere della Sera lo scorso
29 settembre dal titolo “La Rabbia e l’Orgoglio”, che ha commosso,
sconvolto e diviso per le dure prese di posizione della scrittrice-giornalista
più famosa del dopo guerra italiano.
Sbaglia,” scrive Oriana Fallaci nella
lettera idealmente diretta al Direttore del quotidiano, Ferruccio De Bortoli,
“chi paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta sull'Italia
e sull'Europa con l'ondata migratoria che si rovesciò sull'America
nella seconda metà dell'Ottocento anzi verso la fine dell'Ottocento
e all'inizio del Novecento”. No -afferma con forza la Fallaci. “Non
è affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi abbastanza
semplici. Il primo è che nella seconda metà dell'Ottocento
l'ondata migratoria in America non avvenne in maniera clandestina e per
prepotenza di chi la effettuava. Furono gli americani stessi a volerla,
sollecitarla. E per un preciso atto del Congresso. «Venite, venite,
ché abbiamo bisogno di voi. Se venite, vi si regala un bel pezzo
di terra». Ci hanno fatto anche un film, gli americani.” Altra cosa
è quello che sta accadendo in Italia “Ch’io sappia, in Italia non
c'è mai stato un atto del Parlamento che invitasse anzi sollecitasse
i nostri ospiti a lasciare i loro paesi. Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi,
se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel- Chianti.
Da noi ci sono venuti di propria iniziativa,
coi maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che cercavano di rimandarli
indietro. Più che d’una emigrazione s’è trattato dunque d’una
invasione condotta all’insegna della clandestinità. Una clandestinità
che disturba perché non è mite e dolorosa. È arrogante
e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari tutti
e due. Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i
clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno.
Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci
irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò
mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia,
e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo
rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono». Stronzi! In quelle
piazze ve n’erano migliaia, e non si nascondevano affatto. Per rimpatriarli
sarebbe bastato metterli in fila, prego-gentile-signore-s’accomodi, e accompagnarli
ad un porto od aeroporto.”
Il secondo motivo che la Fallaci avanza
è demografico e culturale. “Per esporlo bastano un paio di elementi.
Uno: l’America è un continente. E nella seconda metà dell’Ottocento
cioè quando il Congresso Americano dette il via all’immigrazione,
questo continente era quasi spopolato. Il grosso della popolazione si condensava
negli stati dell’Est ossia gli stati dalla parte dell’Atlantico, e nel
Mid-West c’era ancora meno gente. La California era quasi vuota. Beh, l’Italia
non è un continente. È un paese molto piccolo e tutt’altro
che spopolato. Due: l’America è un paese assai giovane. Se pensi
che la Guerra d’Indipendenza si svolse alla fine del 1700, ne deduci che
ha appena duecento anni e capisci perché la sua identità
culturale non è ancora ben definita. L’Italia, al contrario, è
un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua
identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere:
non prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una
chiesa che si chiama Chiesa Cattolica.” Il problema culturale è
prioritario: “Sto dicendoti” scrive Oriana Fallaci “che noi italiani non
siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi,
guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione
e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è
definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale
non può sopportare un' ondata migratoria composta da persone che
in un modo o nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I
nostri valori.”
La chiusura della lettera-reportage
che ha troneggiato su di un intero quartino del Corriere della Sera, è
affidata ad un amore per l’Italia lucido, a tratti tenero e però
severissimo.
”Io sono italiana. Sbagliano gli
sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non
l'ho mai chiesta.” Ricordando che anni fa un ambasciatore americano gliela
offrì sul Celebrity Status, afferma dopo averlo ringraziato raccontandogli
del suo amore per l’America, gli disse “La mia Patria è l'Italia,
e l'Italia è la mia mamma. Sir, io amo l'Italia. E mi sembrerebbe
di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana”. Gli rispose
anche che “la mia lingua è l'italiano, che in italiano scrivo, che
in inglese mi traduco e basta. Nello stesso spirito in cui mi traduco in
francese, cioè sentendolo una lingua straniera. E poi gli risposi
che quando ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire quel Fratelli-d'Italia,
l'Italia-s'è-desta, parapà-parapà-parapà, mi
viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è
bruttino. Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo
alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che
sventola. Teppisti degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera bianca
rossa e verde dell'Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue,
tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza
Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma
si inchinò noi l'Unità d'Italia non l'avremmo fatta), me
la tengo come l'oro. La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel
tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati. Ammazzati dagli austriaci,
dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento,
col quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la guerra sul Carso, e
la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno Giobatta combatté
a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo austriaco.
Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le
trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato
a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera famiglia
fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io. Nelle file di Giustizia e Libertà,
col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni.
Quando l'anno dopo mi congedarono
dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii
così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando
venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se
accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere
verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E
con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline.
Naturalmente la mia patria, la mia
Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia, furbetta, volgare
degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant'anni
e che si appassionano solo per le vacanze all'estero o le partite di calcio.
L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere
la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello
di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi
a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti
bene-agli-americani-gli-sta-bene. L'Italia squallida, imbelle, senz'anima,
dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né
perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti
alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L'Italia ancora
mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile
battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due
categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è nemmeno l'Italia
dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano
dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice
«Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»).
Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano
nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più
straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono
gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano
i liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio,
chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla
spenta e la lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la
comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia,
sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna,
i piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale
che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità.
Tra una spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa
dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia
è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina,
quando fui congedata dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà,
ed ero piena di illusioni. Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa,
quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c’è
anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai
a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché, che a invaderla
siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i
tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso.
Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.”
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