L’avvizzimento delle coscienze
può avere molte ragioni: anche di carattere fisiologico; il livore
e l’accanimento nascono spesso da ragioni personali.
Le quattro pagine scoop, dedicate
al lunghissimo intervento di Oriana Fallaci sul Corriere della Sera di
sabato 29 settembre sono esemplari per la loro forza, la loro inusitata
coerenza, la loro virulenza, la loro unilateralità.
Nessuna distinzione, nessuna
problematizzazione, nessun limite, neanche linguistico; la merda presunta
o immaginaria degli immigrati arabi in Piazza della Signoria, a Firenze,
pare avvolgere e unificare in un tutto omogeneo, Arafat, Bin Laden, i Paesi
islamici, il chador, la gastronomia dell’oriente; interi popoli e nazioni,
gli “intellettuali ciechi ed ipocriti”, i giovani contestatori assimilati
ai fascisti, la sinistra, gli antirazzisti, tutta la storia viene inglobata
nella vendicativa visione dell’anziana signora di Manhattan.
D’altra parte, l’orgoglio di
appartenere alla élite eletta dell’Occidente, con i suoi mirabolanti
fasti, le sue conquiste, la sua supremazia, e l’America, o meglio gli USA,
come l’esempio più alto di popolo e di Stato votato alla libertà
e alla sua difesa.
La vecchia signora malata, è
nel suo tranquillo appartamento di Manhattan, il centro del mondo, dove
improvvisamente si manifesta la catastrofe, terribile, impossibile,
anche se, come dice lei “attesa”.
Perché “attesa”?
Non ce lo dice chiaramente;
ma lo si intuisce: attesa ed inevitabile perché l’occidente (tra
cui viene censita l’Unione Sovietica) non è riuscita ad estirpare
per sempre la mala pianta dell’islam; non ce la fece in Afghanistan, e
non ce la fece con la guerra del golfo. Per la Signora Fallaci, non sembra
esserci altra strada che il pugno di ferro totale, verso una realtà
che sulla violenza è intrinsecamente costruita, come si può
facilmente dedurre dalla lettura del Corano (ma la Bibbia è poi
così diversa?) e da tutte le storie personali che ci racconta sulle
sue disavventure di donna giornalista in Iran, in Libano, ecc.
Strada facendo, scrivendo,
lei capisce che alle sue argomentazioni si può opporre qualcosa
(cioè alcuni episodi poco eclatanti della storia dell’occidente),
e quindi cerca di anticiparle: “si, lo so, che si può dire questo
e quest’altro, ma, in estrema sintesi, non me ne frega un cazzo; io sono
italiana, sono orgogliosa della mia bandiera, della mia patria, della mia
lingua, al punto che, per esempio, non ho preso la cittadinanza americana
offertami. Chi non la pensa così non ha le palle, e senza palle,
un uomo non è un uomo”, come diceva il padre della Fallaci.
Parole da toscanaccia, che si possono
udire nelle accese tenzoni tra i quartieri delle città medioevali
del centro Italia; quest’Italia patria della più grande civiltà,
che da Roma, passando per Firenze rinascimentale, arriva agli Stati Uniti
d’America. Il disprezzo verso l’altro, che sale da queste pagine,
è di una limpidezza sconvolgente; sconvolgente come le pagine, che
abbiamo letto nello stesso giorno, del manuale tecnico e spirituale dei
terroristi immolatisi per la loro patria, quella di un islam che compendia,
nella loro visione, la strage e la catastrofe.
La scrittura può non avere
mezze misure; e spesso il testo assume una sua oggettiva essenza; non necessariamente
corrispondente a chi l’ha scritto. E lo scrittore, sostiene Borges, può
essere migliore, o peggiore di ciò che ha scritto. In questo caso
però, appare complicato operare questa distinzione, e le parole,
in questi giorni, sono massi, non pietre.
Allora, questa lunga assenza
di Oriana Fallaci dal palcoscenico – 10 anni – poteva non essere interrotta.
Invece è stata interrotta.
E questo è un altro
dei tragici effetti dell’attentato terroristico dell’11 settembre.
R.r.t.