Michele
Anselmi
IL FOGLIO quotidiano
5 febbraio 2002
Roma. Vista da lontano, ricorda
la bandiera americana di Jasper Johns che il Foglio offrì in regalo
ai suoi lettori in forma di poster. Invece è il manifesto di un
film: "Texas ’46". In primo piano, quasi a confondersi con le strisce bianche,
una rete di filo spinato; sulla sinistra, là dove si raggruppano
le stelle, il corpo senza volto di un soldato: lacero, impolverato, in
maglietta, con le scarpe malamente rappattumate. Un soldato italiano. Sì,
uno dei cinquemila (cinquantamila in tutti gli States) che dalla seconda
metà del 1943 fino al febbraio del 1946 si ritrovarono nel campo
di concentramento di Hereford, in Texas. "Military Reservation and Reception
Center" era il nome ufficiale di quel posto poco ospitale, a mille metri
d’altezza, spesso devastato dai tornado e dalle tempeste di polvere, eretto
nel 1942 nei pressi della cittadina texana che oggi conta 15.865 anime
e tre milioni di mucche condannate al macello.
Ma per chi vi fu rinchiuso,
Hereford diventò, soprattutto dopo il maggio ’45, semplicemente
un luogo di patimenti: il cosiddetto Fascist’s Criminal Camp destinato
agli ufficiali italiani che, dopo l’8 settembre, s’erano rifiutati – non
sapendo o non fidandosi – di firmare fedeltà al Re e quindi di aderire
a un corpo speciale chiamato "Italian Service Units". Pronto da svariati
mesi, il film del quarantenne Giorgio Serafini uscirà l’8 marzo
prossimo. Ma sin da ora promette di riaprire qualche ferita storica, nonché
di sollecitare, più o meno maliziosamente, un paragone con il trattamento
riservato al primo gruppo di talebani rinchiuso nella base americana X-Ray,
a Guantanamo. S’intende, c’è una differenza non di poco conto: gli
italiani catturati in Nord Africa dopo la disfatta di El Alamein avevano
combattuto nei ranghi di un esercito regolare nel quadro di una guerra
dichiarata, e quindi erano a tutti gli effetti "prisoners of war" garantiti
dalla Convenzione di Ginevra, mentre i militanti di Al Qaida presi in Afghanistan
appartengono a una formazio-ne terroristica che ha agito al di fuori di
ogni regola bellica, fomentando e organiz-zando un odio totale culminato
nella strage delle Twin Towers. Nondimeno le ormai note fotografie ritraenti
quei talebani in tuta arancione, inginocchiati, ammanettati e imbavagliati,
controllati a vista da giganteschi marines, hanno sollevato una franca
discussione che s’è riverberata sulle pagine del Foglio, con l’aggiunta
di gustose divagazioni storiche connesse alla "Legge degli Elleni" evocata
da Tucidide a proposito dei tebani sconfitti. Vero è che, se non
la "Legge degli Elleni", neanche la più ravvicinata Convenzione
di Ginevra fu rispettata a Hereford dalle autorità americane nei
confronti degli ufficiali italiani considerati "irriducibili".
Il film, pur costruito romanzescamente
sul simbolico duello nel campo ormai svuotato tra il comandante yankee
Roy Scheider e il tenente italiano Luca Zingaretti (il Giorgio Perlasca
di una recente fiction tv), rielabora le testimonianze già raccolte
da Serafini per un documentario, "Le mura di sabbia", prodotto da Canal+
belga, la Sept e Rtl. E così riemerge dagli archivi, con la potenza
drammatica del cinema, una pagina di storia poco conosciuta, volentieri
rimossa, benché narrata nel Dopoguerra da più di un testimone
oculare. Da Giuseppe Berto a Gaetano Tumiati, da Alberto Burri a Dante
Troisi, da Armando Boscolo e Beppe Niccolai, furono in molti, poi ascesi
alla fama, a raccontare la dura esperienza sofferta nel campo di Hereford
nei mesi successivi alla fine della guerra. Decisi a piegare la cocciuta
resistenza degli ufficiali "fascisti" (per i soldati semplici, ingaggiati
come lavoratori agricoli, la vita era ben più morbida), gli americani
le provarono tutte. Scrive il futuro giornalista (e socialista) Gaetano
Tumiati nel suo "Prigionieri del Texas" (Mursia): "Dagli ultimi di maggio
del ’45 hanno cominciato a diminuire le razioni di cibo. Primo hanno chiuso
lo spaccio, poi hanno abolito le salse, il burro, ogni tipo di carne, fresca,
congelata o in scatola". Non bastando, si passò a punizioni ancora
più gravose: adunate senza scopo sotto il sole cocente, dalle 10
del mattino alle 3 del pomeriggio, e gradevolezze del genere.
Spiega il regista, ora alle
prese con un duplice progetto (il rifacimento televisivo de "La cittadella"
e un film su Edda Ciano): "Ho voluto raccontare alcuni uomini persi in
una surreale Terra di Nessuno, la piana desertica del Nord Texas. La guerra
era finita, ma a Hereford tutto restava uguale, cristallizzato. I prigionieri
non capivano che cosa stava succedendo in Italia. Nel dubbio si irrigidirono,
evitando ogni collaborazione col ‘nemico’. Gli americani, a loro volta
sospettosi e orripilati dalla scoperta dei lager nazisti, fecero di tutto
per ritardare il ritorno a casa degli italiani, tanto che gli ultimi quattromila
furono rimpatriati nel gennaio del ’46".
Del vecchio campo di prigionia
è rimasto ben poco oggi a Hereford: una torre dell’acqua, una bizzarra
cappella bianca in stile mussoliniano edificata dagli ufficiali in mezzo
al grano, qualche traccia di filo spinato. Ma il ricordo di quei cinquemila
italiani resta vivido. Molti di essi si fecero voler bene dai farmer locali,
nacquero anche degli amori, e ogni anno da lì parte qualche anziana
signora vestita di rosa per partecipare al raduno dei sopravvissuti che
si svolge a Pesaro, in settembre.
Michele Anselmi
IL FOGLIO quotidiano