Più che mai adesso, alla vigilia
della guerra, è necessario che gli europei che con-dividono le ragioni
e i valori dell’Alleanza atlantica si mobilitino per far sentire la loro
voce e per far capire agli americani che non siamo un continente d’ingrati
voltagabbana. Dobbiamo farlo non solo perché è giusto, ma
anche perché è nel nostro interesse. Uno dei fenomeni piú
curiosi degli ultimi tempi è che alla preoccupazione quasi ossessiva
per le reazioni dell’opinione pubblica nei paesi arabi all’imminente intervento
anglo-americano in Iraq, corrisponde il disinteresse per la risposta dell’opinione
pubblica americana all’intransigenza franco-tedesca.
Da un lato, abbondano, soprattutto sui giornali della sinistra,
le speculazioni sull’atteggiamento di quella che molti chiamano la "piazza
araba", immagine che un intellettuale come Edward Said ha definito invenzione
di orientalisti banali. Dall’altro, c’è l’indifferenza nei confronti
dell’opinione pubblica del nostro maggiore e più affidabile alleato.
Il motivo è che gli europei ritengono l’alleanza con gli Stati Uniti
un fatto naturale, certo e inevitabile come il cambiare delle stagioni.
Per questo pensano di potersi permettere il lusso di disinteressarsi
a come reagisce l’opinione pubblica d’oltreoceano. Inoltre, gli europei
hanno spesso la presunzione di capire e conoscere l’America,
e sono convinti che gli americani di Europa sanno poco. A tutto questo
si deve aggiungere la forza dell’antiamericanismo, già individuato
oltre 70 anni fa da nient’altri che Gramsci come uno dei tratti distintivi
del piccolo borghese europeo. Dal 1989 l’antiamericanismo in Europa
è aumentato, alimentato da una delle forze più infide della
storia: il risentimento dei vinti nei confronti dei vincitori. Per quegli
intellettuali europei che per decenni erano andati in giro a dire che gli
Usa erano peggio dell’Urss, o che al più erano come l’Urss, l’89
ha rappresentato un trauma: pochi hanno sfruttato l’occasione per fare
autocritica; per tanti è stato solo fonte di accresciuto odio nei
confronti del vincitore politico e morale della Guerra fredda. Ma l’atteggiamento
nei confronti dell’Europa in America sta cambiando, e il danno fatto all’Alleanza
atlantica è grave.
I Rhodes Scholars a Oxford sono un termometro del modo
di pensare della futura generazione di leader americani; le borse di studio
create grazie a un lascito di Cecil Rhodes consentono a 32 americani ogni
anno di venire a studiare a Oxford. Rhodes Scholars del passato comprendono
Bill Clinton e alcuni degli esponenti principali della sua Amministrzione
(Robert Reich, Strobe Talbott), il senatore e candidato alla presidenza
Bill Bradley, i capigruppo democratici e repubblicani nella più
influente Commissione parlamentare in materia di Affari esteri, il Foreign
Relations Committee del Senato, nonché giudici della Corte suprema.
La generazione di Rhodes Scholars americani adesso a Oxford lascerà
l’Inghilterra e l’Europa con un atteggiamento nei confronti del Vecchio
continente diverso dalle generazioni precedenti: in luogo dell’entusiasmo
eurofilo di Clinton, delusione e amarezza sono i sentimenti diffusi. Neil
Brown, laureatosi a Harvard, ha pochi dubbi: "L’ Europa resterà
importante per noi, ma l’irrisolutezza degli europei significa che per
noi americani è arrivato il momento di cercare un altro migliore
amico in qualche parte del pianeta". Luke Bronin, prima laurea a Yale,
dice di sperare che l’America "non decida di ridurre il proprio sostegno
all’Europa per ripicca, ma è difficile non avvertire che il senso
d’obbligo nei confronti di alcuni nostri alleati europei sia diminuito…
Dato il forte passato di sostegno e amicizia tra Europa e Stati Uniti,
la posizione di certi paesi europei non può non sembrare a noi americani
come un tradimento". Entrambi aspirano a una carriera politica e con ottime
probabilità di successo.
Queste alcune delle reazioni da parte di chi si trova nel
paese in fin dei conti più filoamericano d’Europa, l’unico che dà
un contributo militare significativo agli americani nel Golfo. Non avremmo
mai dovuto consentire che questa generazione di americani svilupasse certi
sentimenti nei nostri confronti. Governanti e politici in Europa devono
avere il coraggio di Blair e Aznar e sostenere gli americani, almeno con
parole chiare ed efficaci. Gli "atlantisti" – di destra, centro e sinistra
– devono capire qual è la posta in gioco e darsi da fare per rimediare
al danno prima che sia troppo tardi e per riconquistare la "piazza" e l’élite
americane. In Europa abbiamo potuto far affidamento sul sostegno delle
forze armate più forti del mondo per proteggere i nostri interessi
politici, economici e la nostra sicurezza. Negli ultim 60 anni l’intervento
americano ci è stato fondamentale per sconfiggere il nazismo, il
totalitarismo comunista, per salvare i musulmani bosniaci dal genocidio
e per aiutre gli albanesi del Kosovo. Per la prima volta nella storia recente
i nostri alleati americani si sentono minacciati nella loro sicurezza nazionale.
La risposta europea è stata piena di esitazioni e incertezze, di
giochetti diplomatici alle spalle, e molti in Europa sembrano più
preoccupati di accontentare l’opinione pubblica saudita di quella americana.
La conseguenza di tutto ciò è che nel futuro pochi in Europa
potranno dare per scontato l’aiuto americano nel momento del bisogno. Merci,
Monsieur le President.
Guglielmo Verdirame
(laureato a Bologna, e' docente di Diritto Internazionale a Oxford)